sabato 24 marzo 2012

Cronache Cinesi - Alla ricerca dell'io e dell'altro da me.

Nei miei precedenti post riguardanti l'esperienza in Cina ho sempre parlato, più che altro, delle condizioni o degli eventi assurdi che sono capitati nel corso del soggiorno. Premesso che non ho ancora finito di raccontarli tutti e che qualche chicca non è ancora stata svelata, questa volta vorrei raccontare qualcosa di diverso.
Questa volta vorrei raccontare la parte seria, quella che in genere non si narra perchè è molto più divertente vedere le espressioni degli altri mentre, con il sorriso stampato in faccia, racconti di quel giorno che hai tolto la mosca dal riso riscaldato per la decima volta in un pentolone lavato l'ultima volta prima della seconda guerra mondiale.
Oggi provo a raccontare perchè mi sono innamorata della Cina e perchè sono pervasa da questo spasmodico bisogno di tornarci.
Prima di tutto è stato l'avverarsi di un sogno. Un sogno coltivato per molti anni che è cambiato e maturato nell'aspetto e nella forma. A 24 anni sogni la stessa cosa che sognavi a 16 ma in modo diverso, potrei dire più consapevole, più realistico. La Cina non era più un luogo mistico di villeggiatura pieno di saggi in tunica arancione e rosario buddista in mano, a 24 anni la Cina la vedi come quello che è, sai del governo, sai del proibizionismo, sai del caos metropolitano di Pechino, della povertà delle città "più piccole". Quello che non sai, invece, è l'aspetto sociale. In fondo non hai mai visto veramente come vivono i cinesi, non hai interagito con loro. Non lo puoi sapere fino a quando non ti trovi lì in mezzo a un miliardo e mezzo di abitanti dei quali il 90% non ha idea di che cosa sia l'inglese.
Ed è proprio lì che impari.
Io non sono una grande viaggiatrice. Prima del 2007 non avevo mai messo piede fuori dall'Italia, poi, alla soglia dei 20 anni, il mio primo viaggio oltre il confine, a Madrid. Il mio primo aereo in assoluto e...dovevo districarmi nel labirinto dell'aeroporto completamente da sola.
Se escludiamo la mia personale odissea a Malpensa la vacanza di per sè non è stata poi questa gigantesca esperienza di vita. Così come quando sono andata a Monaco di Baviera.
In entrambi i casi si trattava di situazioni "protette". Ci sono sempre andata perchè qualcuno abitava lì, poteva ospitarmi, sapeva benissimo dove andare, cosa vedere, cosa farmi fare.
Il viaggio in Cina è stato come lanciarsi nel vuoto. 12 ore di aereo (solo per lo scalo a Mosca ne ho fatte di più rispetto al totale della mia intera vita), ritrovarsi dall'altra parte del mondo, non sapere la lingua, non conoscere i luoghi. Sai che non puoi bere l'acqua dal rubinetto, niente frutta o verdura crude, hey ma questo ha tirato uno sputazzo a 3 centimetri dalla mia scarpa, guarda quella motozzappa con il rimorchio, ah quella è una lavatrice, sì il letto è quell'asse di legno con un lenzuolino sopra, guarda la fiera del fake, ma di preciso cosa vendono in questo negozio, oddio ma è rosso non puoi sorpassare all'incrocio sfiorando i passanti moriremomoriremomoriremotutti.
Un salto senza paracadute, in pratica.
Jackie ci ha aiutati, ma non era con noi sempre. Vuoi andare a fare un giro, a prendere le cose per allenarti, bene ci vai da solo.
La fortuna è stata avere con noi persone che c'erano già state negli scorsi anni. Allora potevamo prendere anche l'autobus sapendo già che era il 2 a portarci sulla via principale. Sapevamo di dover mettere 1 yuan nella cassettina salendo per "pagare il biglietto".
E per il resto? Ci siamo dovuti adattare ed ingegnare.
Al di là di tutto questo, arriviamo al punto.
Quello che ho imparato là in un mese va oltre a tutto quello che ho potuto assimilare nel resto della mia vita. Magari l'avrei imparato anche andando in Tibet o in India, questo non posso saperlo. Là ha certamente aiutato il fatto degli allenamenti e, quindi, il dover fare per tutto il giorno qualcosa che mi piace, che mi piace davvero. Non c'erano pensieri, non c'erano preoccupazioni. Cosa farò a settembre, l'università, il lavoro erano tutti pensieri sì reali, ma lontani nel tempo, annebbiati, quasi lontani da me. Non era una fuga dalla realtà, se lo fosse stata non sarebbe stata per niente un'esperienza di vita. Ma in quel momento contavano altre cose. Aveva un senso il doversi procacciare la colazione, avevano senso le sensazioni del momento, il sentire quel mondo.
Ho imparato che viaggiare insegna molte cose sia sulle altre persone sia su se stessi. Questo è stato particolarmente vero nell'esperienza cinese così bella e difficile allo stesso tempo.
Si dice che una persona non la si conosca veramente fino a quando non ci si dorme insieme, io cambierei il "non ci si dorme" con "non ci si viaggia".
Uno dei primi insegnamenti ha riguardato i miei compagni di viaggio ed il mio rapporto con loro.
Li ho visti in quelle che potrebbero definirsi "le peggio condizioni" e lì, forse per la prima volta, li ho veramente visti.
In questo modo scopri chi veramente è affidabile, responsabile e amico. E' facile essere amici quando le condizioni sono ottimali e non ci sono problemi, è già più difficile quando la situazione è un pochino estrema. Lì vedi chi è disponibile, risalta l'egoismo di altri, l'infantilità di altri ancora. Scopri chi sono veramente le persone con le quali passi il tuo tempo.
La mia è stata una scoperta fortunata perchè coloro sui quali facevo affidamento non si sono scoperti essere diversi. Magari un po' più caotici, ma comunque veri. Degli altri preferisco non parlare perchè si sono rivelati essere peggio di quel che pensassi in precedenza (in un caso, direi, decisamente peggio).
Ma non sono solo i compagni di viaggio quelli con i quali si rinserrano i legami.
Lì basta buttare un occhio oltre i 5 volti conosciuti per poter scoprire un nuovo mondo. C'è una popolazione tutta nuova con un modo di vivere così diverso e così uguale da scoprire che sarebbe veramente stupido rinserrarsi nel proprio occidentalismo.
Il porcaro davanti alla Scuola con una concezione di ospitalità tutta sua. Qua sei ospitale quando inviti il tuo vicino a prendere un caffè in casa tua anche se doveva solo chiederti una cosa veloce, lì sei ospitale se mentre mangiamo ti siedi su uno sgabello a pochi passi da noi per allontanare il randagio dal nostro tavolo mentre fumi come un turco e tiri degli scaracchi che ti appiccicherebbero al muro. Però un tavolo per noi c'è sempre e sì, siamo i ricchi occidentali che lì possono permettersi un'infinità di cose in più rispetto alla popolazione locale, ma le bottiglie di thè al bambù ce le hai regalate lo stesso con il solo scopo di farcelo assaggiare e di farci un regalo. Non ha un grande valore a livello economico il thè al bambù, ma come non valorizzare il gesto?
I tassisti con i quali il dialogo si faceva tramite un biglietto da visita del luogo, gesti per contrattare i prezzi e tanti xièxiè per ringraziare di non averti mollato in qualche strada sperduta, ma averti portato sul posto.
Le persone di DengFeng che ti guardano curiose la mattina alle 5 nella piazza principale mentre tu guardi curiosamente questa loro bipolare personalità che passa dal caos più totale alla calma irreale. Ti vedono, ti puntano, ti si avvicinano e sorridendo ti dicono qualcosa di completamente incomprensibile. Allora tu, scavando nella tua memoria delle parole imparate di recente, te ne esci con un "Idaly, Idaly" (Italia, Italia) che speri possa o farli desistere dal parlarti perchè tanto, ovviamente, non capiresti o di farli switchare all'inglese. Loro, imperterriti e sorridenti, ti risponderanno "ah! Idaly!! wooauul insh udnae" e tu annuirai sorridendo.
Il monaco al tempio di Fawang che sta facendo il bucato, si volta, ti dice qualcosa che non capisci e tu gli rispondi con un "amituofo", lui se ne va e dopo poco torna con una mela e te la regala.
Poi ci sono i ragazzini della Scuola.
Sebbene esista un'insegnante d'inglese (vabbè...non esageriamo adesso, il suo inglese era fermo a "water, room!!! sorry! sorry!" quando si è scusata per averci allagato la stanza con delle secchiate d'acqua) i ragazzi non sanno dire nulla in una lingua che non sia il cinese.
No, non è vero...ricordo distintamente una sola parola pronunciata in inglese da loro: "fakka" e cioè, la loro personale interpretazione di "fuck".
Al di là di questo il nulla.
Eppure ci si capiva benissimo lo stesso. Qualche verso, poi indichiamo i soggetti della frase, mimiamo i gesti e via, fatta una frase.
Il bambino che arriva e ti indica il tuo braccio e poi con le dita fa degli scarabocchi sopra dicendo "tzzz tzzz" e facendo una faccia sofferente ti sta chiedendo se per caso, anche tu, non abbia un tatuaggio come l'altra ragazza del gruppo. L'altro arriva ti fa mettere in gongbu ti posiziona le braccia, ti si mette di fronte e si fa fare una foto con te in una posizione marziale. Arrivano gli altri e ti mimano una macchina fotografica perchè vogliono fare delle foto o vogliono vedere quelle che hai fatto tu. Tutti insieme sul tappeto dentro al lurido capannone e senza la presenza del coach ci scrutiamo e poi parte la dimostrazione di chi è più sciolto o salta più in alto (chissà chi avrà mai vinto eh..).
Oltre a questo c'è tutto il resto. Le ragazze (erano solo 2) timide che prendono il pasto e lo vanno a consumare in camera, lontano da tutti, a furia di essere salutate alla fine ti sorridono e salutano a loro volta, i ragazzi più grandi che scherzano con te, vogliono fare foto mentre stanno mangiando, qualcuno ti abbraccia anche, i più piccoli timorosi di starti accanto o perchè sei occidentale o perchè sei donna o forse tutti e due insieme, ma alla fine anche loro ti conoscono e si avvicinano, a quel punto basta un niente un tuo sorriso o una tua carezza per un loro sorriso sincero, spontaneo.
Con i ragazzini cinesi non ho scambiato una sola parola di senso compiuto quale che sia la lingua, solo versi e gesti, eppure, in qualche modo, ho avuto con loro alcuni dei "dialoghi" più costruttivi che io possa ricordare.
Sto esagerando? No, affatto.
Non me lo sto nemmeno inventando. Ma questo lo posso dire io (e probabilmente anche chi era con me in viaggio) che nulla è frutto della mia immaginazione perchè se non si fosse instaurato un rapporto non avrebbero avuto quelle attenzioni per noi prima che partissimo nè quello sguardo quando salivamo sul furgoncino.
Le statiche foto che ho fatto mi ricorderanno i volti di quei ragazzini e la loro curiosità verso "l'altro" che per una volta posso identificare in me, il loro entusiasmo, il loro estraniarsi dal mondo davanti ad un film di Arti Marziali nelle serate libere, il loro approccio, il loro affetto.
Ho amato, amo, la Cina anche per gli scorci di vita che ho visto in giro per le strade. Scorci di vita veri e non costruiti perchè entrando in una qualsiasi traversa della strada principale vedevi tutte le bancarelle di persone che svolgevano il loro mestiere lì, per strada, chi cuciva, chi cucinava, chi aggiustava le scarpe. Non c'era nulla di pronto, preparato o costruito a tavolino per noi occidentali.
Ci sarebbe così tanto da dire, ancora, che non so nemmeno come potrei ordinare i miei pensieri a proposito.
Ed infine c'è la ricerca e la scoperta di se stessi.
Se è vero che le persone le scopri quando ci viaggi insieme è anche vero che nel viaggio scopri te stesso.
Non puoi sapere cosa farai, come reagirai, fino a quando non ti ci troverai dentro.
Ed è questo che la Cina mi ha regalato. Me stessa.
Per la prima volta in assoluto nella mia vita ho compreso di essere esattamente dove volevo essere.
Nemmeno l'università mi ha mai fatta sentire così, anzi, fin troppe volte è stato l'esatto contrario con la paura di non farcela, il terrore di aver osato troppo, la delusione nel pensare di voler lasciar perdere. Il fatto che sia arrivata fino alla fine è un altro discorso, un discorso di ripensamenti, sconforto e, in qualche modo, forza di volontà ed orgoglio. Un travaglio.
Anche lì mi sono sentita inadeguata in mezzo a dei ragazzini che erano anni luce davanti a me per preparazione e tecnica. Ma non erano quelle le cose per le quali sono stata preparata. Qua ti insegnano a contare, a parlare, a scrivere, i pensieri dei filosofi, la storia non censurata, un paio di lingue morte, gli autori delle lingue morte e la loro saggezza. Nessuno mi ha mai insegnato a stare in mabu perfetto 2 ore consecutive o il calcio tornado durante educazione fisica.
Nella mia inadeguatezza mi sono sentita giusta. Nella mia inesperienza mi sono sentita libera.
Ho scoperto di sapermi adeguare alle peggio condizioni, di potermi districare nell'arte del contrattare/gesticolare, ho addirittura parlottato inglese senza vergognarmi, ho stretto amicizia con persone che non so se rivedrò mai nella mia vita.
In un luogo così lontano e diverso, lo giuro, non avrei mai pensato di trovare una cosa così importante per me.
Che poi mi rendo conto di aver detto tutto e niente in questo post, è tutto accennato, è tutto vago, ma davvero è difficile provare a spiegare tutta l'evoluzione che hanno seguito questi pensieri e queste consapevolezze. Non credo, in effetti, che siano del tutto chiari nemmeno a me questi passaggi.
Mi rendo conto, però, che davvero la stessa ragione del mio viaggio è stata viaggiare. In senso/stato di luogo figurato, principalmente.

4 commenti:

  1. e dici poco. Che post intenso! :-)

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  2. Che bel post! Si attaglia perfettamente alla filosofia secondo cui ciò che importa, in un viaggio, non è tanto la meta quanto il viaggio stesso. :-)

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    1. grazie! :)
      sì davvero...un viaggio memorabile! non potevo sperare nulla di più :)

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